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Arringhe, requisitorie e domande retoriche

Frequente era ed è l’uso di domande retoriche nei contesti processuali (ovviamente con riferimento ai discorsi conclusivi – arringa e requisitoria), quali strumenti di coinvolgimento dell’uditorio.

Umberto Eco nei suoi 38 consigli di buona scrittura pone ironicamente una interrogativa retorica: “C’è davvero bisogno di domande retoriche?”. Cicerone ne è sempre stato convinto, soprattutto quando ebbe a parlare di Catilina davanti al Senato. E allora?

Ebbene, la domanda retorica non è una richiesta di informazioni, poiché non intende altra risposta se non l’ovvia conferma di ciò intorno a cui si fa mostra di interrogarsi (es. “E tutto questo non è estremamente noioso? [Ma certo che lo è!]”.

Può però manifestarsi in modi diversi. Ad esempio, in forma di ratiocinatio: è il ragionare tra sé e sé ponendosi delle domande. In particolare, si ha ratiocinatio quando, dopo aver avanzato delle affermazioni, ci si domanda, prima di darsi da soli una risposta, la ragione (ratio) delle affermazioni fatte.

Poi c’è la sermocinatio: qui l’oratore o scrittore riporta un monologo o una riflessione intellettuale propria o appartenente ad un’altra persona, contenente domande rivolte a se stessi (in sostanza, si finge che ci vengano poste delle domande e si risponde ad esse). Questa forma dialogica può presentarsi anche come la finzione di un dialogo tra due o più persone, con domanda e risposta.

Infine, si può avere la interrogatio (o percontatiorogatio), che consiste nel rivolgere domande ad altri (il proprio avversario o il pubblico). Nelle finte domande che l’oratore pone sono contenute le osservazioni dell’avversario contro le quali egli avanza subito le sue obiezioni, sotto forma di risposta.

L’esempio classico di domanda retorica è indubbiamente rappresentato dall’attacco (exordium) della prima delle quattro catilinarie di Cicerone (si tratta di quattro orazioni pronunciate in Senato nel 63 a.C. in seguito alla scoperta e alla repressione della congiura che faceva capo a Catilina). Configurazione di interrogativa che raggiunge addirittura i toni dell’invettiva:

Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum praesidium Palati, nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora voltusque moverunt? Patere tua consilia non sentis, constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fueris, quos convocaveris, quid consilii ceperis, quem nostrum ignorare arbitraris? O tempora, o mores!

Fino a che punto, Catilina, approfitterai della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora la tua pazzia si farà beffe di noi? A che limiti si spingerà una temerarietà che ha rotto i freni? Non ti hanno turbato il presidio notturno sul Palatino, le ronde che vigilano in città, la paura della gente, l’accorrere di tutti gli onesti, il riunirsi del Senato in questo luogo sorvegliatissimo, l’espressione, il volto dei presenti? Non ti accorgi che il tuo piano è stato scoperto? Non vedi che tutti sono a conoscenza della tua congiura, che la tengono sotto controllo? O ti illudi che qualcuno di noi ignori cos’hai fatto ieri notte e la notte ancora precedente, dove sei stato, chi hai convocato, che decisioni hai preso? Che tempi! Che costumi!

Una sequenza incalzante di interrogative retoriche, che terminano nella celebre esclamazione “O tempora! O mores!”. Una costruzione arricchita anche dall’uso di altre figure retoriche, come l’anafora (attraverso la ripetizione per ben sei volte di seguito di nihil– in latino, niente– all’interno della quarta interrogativa retorica) e la l’omoteleuto, ovvero la ripetizione di più parole con la stessa terminazione (in questo caso egerisfuerisconvocaverisceperis), che donano un ritmo ancora più serrato e incalzante.

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