La lingua di avvocati e giudici è stata oggetto di attente analisi che, per quanto critiche, non hanno ancora portato ad una evoluzione della specie, quanto meno in ambito lessicale e sintattico.
E’ una lingua fatta di un lessico necessariamente tecnico, ma che oltrepassa le necessità e finisce per creare una selva oscura di cliché, formule gergali e vezzi sinonimici desueti, che si ripetono identici nel tempo e di atto in atto: quasi un “marchio di fabbrica”, un modo consapevole e compiaciuto non tanto per erigere barriere nei confronti del cliente, quanto forse per legittimarsi reciprocamente con gli altri avvocati e davanti ai giudici, per farsi riconoscere come appartenenti alla ‘specie’ e tecnicamente ‘attrezzati’. Un circolo vizioso, che neanche la generale e moderna esigenza di semplificazione degli ultimi anni ha sino ad ora scalfito. Un circolo vizioso in cui i protagonisti insistono nel riproporre formule oscure, latinismi spesso sgangherati e costruzioni sintattiche involute, sfidando la concezione del ridicolo.
Che bisogno c’è di usare connettivi del tipo “di tal ché” o “di guisa che”? Che bisogno c’è di definire le tesi e le deduzioni della controparte comunque e sempre “prive di pregio”, “destituite di fondamento”, “inconferenti”, “irrituali”, “pretestuose”, “infondate”, “apodittiche”, “ultronee”, e molto spesso tutte insieme? Che bisogno c’è di far accompagnare le enunciazioni dell’avversario sempre dall’anaforico e quasi mitico aggettivo ‘asserite’ (da cui l’avverbio tipicamente giuridico ‘asseritamente’)?
La professione si tramanda, così come gli atti, i modelli, le lettere, dove si ritrovano espressioni pompose, articolate e arcaiche, ma soprattutto inutili. Il titolare dello studio è il ‘dominus’, che negli atti inserisce espressioni uscite dalla lingua comune tra cui “ricordo a me stesso”, o “come lei mi insegna” per far presente un’ovvietà giuridica, o “nella denegata e non creduta ipotesi in cui l’Ill.mo Giudice adito” per prevedere il caso in cui il giudice dia torto.
Nelle lettere, poi, ci si riferisce a ‘egregio’, ‘spettabilissimo’, ‘gentilissimo’ e un “a presto” si trasforma in un “lieto dell’incontro professionale e certo del suo celere e puntuale risconto in merito alla pratica de qua, resto a sua completa disposizione per quanto le occorresse e la saluto cordialmente”.
Come allora dare torto a Carofiglio, scrittore già magistrato, quando rileva che, in questa ‘lingua’, “gli stessi concetti, per cui erano state usate centinaia di parole, potevano essere riassunti in poche frasi” e che “i giuristi, con rare eccezioni, sono inconsciamente e tenacemente contrari alla chiarezza e alla sintesi”?
L’obiettivo, in verità, non deve essere tanto e solo quello di combattere una forma di comunicazione assolutamente inefficace e tuttavia utilizzata da una ‘specie’, ma quello di salvare proprio la ‘specie’, che deve confrontarsi con realtà – internazionali – dove la comunicazione è tecnica ma semplice ed efficace.
Un breve saggio su questi e simili problemi (di cui i relativi portatori sani sono forse poco consapevoli) è quello realizzato da Maria Vittoria Dell’Anna, dell’Università del Salento.
E, per chi ama il cinema e vuole immergersi in un’oratoria giudiziaria d’epoca (con eredità peraltro ancora visibili…), ecco lo straordinario Pietro Tordi che interpreta l’avvocato in “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi (1961). Buona visione.