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La requisitoria di Vittorio Occorsio per il diritto di cronaca e di critica

Chi era Vittorio Occorsio? Era un magistrato romano di 47 anni e, nei processi legati alla strategia della tensione, aveva svolto la funzione di pubblico ministero. Cercava prove e colpevoli con grande onestà intellettuale. Nel 1967 era lui il Pm nel processo contro i giornalisti Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, accusati di avere rivelato le trame del minacciato colpo di Stato del luglio 1964 (piano Sifar). Occorsio, in una celebre requisitoria, chiese l’assoluzione argomentando che i due giornalisti avevano esercitato il loro diritto di cronaca e di critica (per inciso: la corte condannò Scalfari e Jannuzzi a 15 e 14 mesi per diffamazione aggravata).

Ecco la requisitoria integrale pronunciata da Occorsio, che verrà ucciso dai terroristi di destra il 10 luglio 1976. 


“Signor presidente, signori giudici,

al di fuori di ogni polemica e di ogni tentativo di allargare o strumentalizzare il processo, è compito del Tribunale stabilire se i giornalisti Scalfari e Jannuzzi abbiano diffamato o meno il generale De Lorenzo e il colonnello Filippi. È stato detto poco fa dalla parte civile che il giudizio del Tribunale è un giudizio impegnativo, atteso dalla Nazione, ma il giudizio del Tribunale è un giudizio che sempre è importante, sia se deve giudicare di un furto, sia se deve giudicare di fatti che, come quelli di cui oggi si discute, interessano tutta l’opinione pubblica. Naturalmente la particolarità della materia impone nella specie un’indagine più complessa, più scrupolosa, più profonda; la presenza in questa aula di sei parlamentari, dodici generali, otto colonnelli come testimoni non deve però trasformare il processo portandolo su un piano diverso da quello normale. Quindi non superiamo i limiti di quello che è un giudizio strettamente legato all’analisi di un fatto e ad alcune valutazioni di diritto.

Di cosa si dolgono dunque i querelanti? Il generale De Lorenzo si lamenta di essere stato indicato come l’organizzatore di un complotto contro lo Stato; il colonnello Filippi si lamenta di un fatto che è un po’ secondario rispetto all’essenziale del giudizio: si duole di alcune parole che a lui sono state attribuite e che sarebbero state dette durante una riunione al Comando generale dei Carabinieri. I giornalisti riferirono infatti che Filippi propose che De Lorenzo, in un governo di emergenza, dovesse assumere la carica di ministro della Difesa.

I fatti di cui si discute si localizzano in un periodo ben circoscritto: crisi del governo Moro, iniziata il 25-26 giugno 1964 e terminata alla fine di luglio di quell’anno. Dico 25-26 giugno perché il 25 il Governo fu battuto alla Camera da un voto sulla scuola e il 26 si dimise. Anche questo ha la sua importanza come vedremo. Comunque ricordiamo ora queste date per dire che tutto ciò che è avvenuto dopo il luglio 1964 a noi non interessa. Può interessare solo in quanto c’è qualche richiamo al giugno-luglio 1964, ma certamente il motivo per il quale il generale fu sostituito nell’incarico di capo di Stato Maggiore dell’Esercito non ha niente a che fare con la causa e le divagazioni sul tema della parte civile sono fuori posto.

Sempre per quanto attiene ai limiti del giudizio, nella querela De Lorenzo c’è stata una limitazione; il generale dice: mi querelo per quanto riguarda i fatti del giugno-luglio 1964, non mi querelo per quello che riguarda il SIFAR. È veramente singolare questa posizione del querelante. Ad avviso del Pubblico Ministero il Tribunale non si deve preoccupare di stabilire se quanto fu scritto sul SIFAR era diffamatorio o meno per De Lorenzo, ma ovviamente quando nell’indagine relativa ai fatti del 1964 nasce ad un certo momento il nome SIFAR, il Tribunale non può non indagare su questo argomento. Non si deve dimenticare che il primo articolo dell’Espresso recava nell’occhiello: Finalmente la verità sul SIFAR. La sottigliezza distintiva fatta nella querela, non può far sì che noi prendiamo il SIFAR e lo togliamo dal processo. In realtà abbiamo visto che i punti essenziali della causa toccano proprio il SIFAR e quindi di esso ci dobbiamo anche occupare.

Vediamo adesso come è nata la frase, lo slogan, «colpo di Stato», perché è chiaro che ad un certo punto i termini assumono il significato che ad essi si dà; perché il «colpo di Stato», di per sé, non ha significato concreto giacché si tratta di un termine molto generico. Quando comincia la questione del « colpo di Stato »? Nasce non nel maggio 1967 ma nel luglio 1964. Invero, a prescindere dalle conclusioni allora tratte, già nel luglio 1964 il giornalista Vittorio Gorresio ritenne opportuno scrivere sulla «Stampa» di Torino un grosso servizio sul cosiddetto colpo di Stato. Ugualmente si ritenne interessante affrontare l’argomento su altri giornali: «II Borghese» (parlo solo dei giornali allegati agli atti), il 9 aprile 1964 scrisse: L’ipotesi autoritaria e non riferì che erano solo favole, ma disse che vi erano delle voci sul “colpo di Stato”. C’è poi l’articolo sul giornale francese «L’Express » che affermò che il comandante generale dei Carabinieri «nutriva grosse ambizioni politiche». Inoltre, come abbiamo anche sentito ricordare dalla parte civile, nel corso della seduta in Parlamento per il voto di fiducia al Governo, si parlò del «colpo di Stato»; ne parlò l’onorevole Brodolini, il quale disse: “lungo e complesso è stato l’iter della crisi, nel corso della quale lo scatenamento dell’offensiva tesa ad impedire la restaurazione del centro-sinistra e ad avviare su altri avventurosi binari la vita italiana ha toccato punte di inusitata violenza. Vero è che le voci di congiura di palazzo o di colpo di Stato di cui si è accennato nel corso della crisi appartengono solo al mondo della fantasia ».

Prima tesi, dunque: la storia dei fatti del 1964 è una favola.

Quando ricomparve l’argomento? Fu al momento delle indagini sulle deviazioni del SIFAR. Esattamente nella seduta del 3 maggio 1967, nella quale fu reso noto il rapporto della Commissione Beolchini, il deputato socialista autonomo Anderlini, che nel luglio 1964 faceva parte del governo Moro dimissionario, in un suo polemico intervento, ebbe a dichiarare: «La sparizione dei fascicoli, la vastità delle diramazioni del SIFAR, gli interventi nei Congressi dei partiti politici, tutto questo non può non indurci a ritenere che uomini come il generale De Lorenzo, abbiano ad un certo momento cominciato a lavorare in proprio svolgendo una azione autonoma. Credo che tutti ricordiamo l’atmosfera assai pesante nella quale si svolse la lunga crisi di Governo del luglio 1964. Ci potremmo trovare – forse abbiamo rischiato di trovarci nel luglio 1964 – di fronte ad una notte come quella che i generali greci hanno recentemente organizzato per strangolare la democrazia greca. Io penso ai fascicoli del SIFAR. Poteva essere nella mente di qualcuno la rete entro la quale far cadere l’intera classe dirigente del nostro Paese».

Fu a questo punto che «L’Espresso» si inserì nella vicenda: il giornalista Jannuzzi sentì alla Camera il discorso dell’onorevole Anderlini sul cosiddetto colpo di Stato e fece una inchiesta pubblicata «a puntate» su «L’Espresso». Gli articoli furono:

n. 20 del 14.5.1967 Complotto al Quirinale (autore Jannuzzi)

n. 21 del 21.5.1967 Ecco le prove (autori Jannuzzi-Scalfari)

n. 22 del 26.5.1967 – I fatti ed i testimoni (autore Scalfari)

n. 23 del 2.6.1967 – Nenni parla del 14 luglio (autore Scalfari)

n. 29 del 16.7.1967 Israele salva De Lorenzo (autore Scalfari)

n. 39 del 24.9.1967 De Lorenzo in Giappone (autore Scalfari)

n. 40 del 1.10.1967 – La querela di De Lorenzo (autore Scalfari).

In questi articoli Jannuzzi e Scalfari sostennero che:

  • il generale De Lorenzo, dopo aver assunto la carica di comandante generale dell’Arma dei Carabinieri (1962), aveva impresso all’Arma stessa una spinta militaresca rafforzandone il dispositivo bellico in contrasto con i compiti tradizionalmente di pace dell’Arma dei Carabinieri. Tra l’altro aveva costituito una brigata corazzata posta alle sue dirette dipendenze;
  • il generale De Lorenzo aveva collocato uomini di sua personale fiducia in posti chiave dell’Arma dei Carabinieri e del SlFAR;
  • durante la crisi di Governo del luglio 1964 vi erano state presso il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri riunioni ed in particolare una, il 14 luglio 1964, nel corso delle quali il generale De Lorenzo aveva messo in stato di allarme l’Arma dei Carabinieri;
  • in particolare il generale De Lorenzo aveva messo in pratica attuazione il «piano di emergenza speciale E.S. », ed aveva trasmesso ai Comandi periferici dell’Arma liste di persone da arrestare. Nelle liste vi erano compresi esponenti politici fino ad arrivare ad uomini di Governo;
  • l’azione era stata predisposta su invito dell’allora presidente della Repubblica Segni, in vista di un Governo di emergenza o di amministrazione, o minoritario;
  • nel corso di una di queste riunioni – quella del 14 luglio – il colonnello Filippi era intervenuto ed aveva sostenuto che il generale dovesse assumere nel futuro Governo la carica di ministro della Difesa.

Nel primo articolo, Complotto al Quirinale , «L’Espresso» non indicò le fonti di informazione, ma nel numero successivo le precisò indicando fonti politiche e militari.

Quali furono le reazioni agli articoli de «L’ Espresso»? Invero in una causa nella quale si procede a querela di parte non possiamo ignorare il comportamento della parte offesa che fu nella specie singolare. Ora va notato che le smentite che riguardavano la posizione dell’ex presidente della Repubblica Segni furono più che tempestive.

Il 10 maggio 1967, e cioè il giorno prima che il n. 20 de «L’ Espresso» andasse in edicola, la presidenza del Consiglio dei ministri ed il presidente Saragat smentivano le accuse rivolte all’ex presidente Segni.

L’ 11 maggio 1967 alla Camera, l’onorevole Bertinelli dichiarava che «non risponde a verità che il Capo dello Stato dell’epoca abbia tramato contro lo Stato ».

Il generale De Lorenzo, invece, prima di fare una smentita contro accuse di tale gravità attese ben cinque giorni. Non diciamo che questa (unitamente alla mancata proposizione della querela contro l’articolo Complotto al Quirinale) sia una prova della verità dei fatti, ma osserviamo che certamente c’è stata una perplessità da parte di chi doveva fare la smentita. E non solo: la smentita fatta il 15 maggio 1967 non è integrale, non è contro le valutazioni espresse nell’articolo, bensì puntualizza alcuni fatti contestandoli, e cioè: «Nessun rapporto vi fu del generale quale comandante dei Carabinieri ai quadri più elevati dell’Arma, né il 14 luglio 1964, né dopo, né prima».

«Nessun particolare piano di emergenza venne preso in considerazione in tale circostanza».

«Non ha mai il generale De Lorenzo espresso apprezzamenti irrispettosi nei confronti del presidente Segni».

E il giornale seguita, pubblica settimanalmente altri articoli che insistono sul tema e nessuna querela da parte di De Lorenzo.

Si querela, invece, il 27 luglio 1967, il colonnello Filippi, che pure solo marginalmente era stato inserito nel Complotto.

Si dovrà giungere al 12 ottobre 1967 perché il generale sporga querela e limitatamente a due articoli pubblicati il 24 settembre 1967 e l’ l ottobre 1967 e solo per due affermazioni: « Il governo aveva addirittura tentato un pronunciamento autoritario nel luglio 1964»;

«una Commissione accertò gli intrighi e i complotti dell’ex comandante del SIFAR ».

Eppure dal maggio 1967, non soltanto « L’Espresso » si stava sbizzarrendo sulla questione del «colpo di Stato », bensì tutta la stampa italiana per alcuni giorni parlò con enorme risalto di questo argomento ed alcuni giornali periodici prospettarono addirittura altre tesi.

Così «L’Astrolabio », diretto dal senatore Parri, scrisse un servizio, Anatomia di un colpo di Stato, pubblicato il 21 maggio 1967 e riprese la stessa tesi de «L’Espresso » e nessuno lo querelò. Così un altro settimanale, «Vita», diretto dal deputato D’Amato, ispirato ad ambienti vicini a Segni, fece un ampio servizio sostenendo l’estraneità ai fatti dell’onorevole Segni ma precisando, sul numero 425 dell’ l giugno 1967: «De Lorenzo credeva che la situazione politica fosse prossima ad un totale collasso e che in questo si potesse inserire un suo personale tentativo. E così in pieno luglio il generale fu vittima di un “colpo di sole “. Tutto si ridusse ad una riunione di ufficiali dei Carabinieri che De Lorenzo considerava fedelissimi; a dispetto delle smentite, ” Vita” è in grado di precisare che essa ci fu realmente e che non si trattò di un normale rapporto di quadri ».

Le indagini sulle fonti di informazione

Il Tribunale nel corso del dibattimento, dopo aver interrogato gli imputati che si sono proclamati innocenti, ha deciso di sentire le cosiddette fonti di informazione. Infatti gli imputati avevano dichiarato che tutto quanto da loro scritto era fondato su informazioni ricevute da persone qualificate sia per la posizione sociale, sia per la specifica competenza in materia.

Gli informatori erano quelli stessi indicati nel secondo articolo intitolato: Ecco le prove, e cioè: tre parlamentari, che avevano a suo tempo ricoperto cariche di governo (senatore Parri, onorevole Anderlini e onorevole Schiano) e tre ufficiali superiori (generale di Corpo d’Armata Gaspari, colonnello De Crescenzo e colonnello Taddei).

Sul valore delle testimonianze rese dagli uomini politici, osserva preliminarmente il Pubblico Ministero che non è pensabile che uomini di responsabilità abbiano potuto parlare avventatamente solo perché mossi da una determinata fede politica.

Cosa dunque dissero in udienza i testimoni?

Il Senatore Parri ha confermato di aver riferito a Scalfari e a Jannuzzi che nell’estate 1966, nel corso di un colloquio con il generale De Lorenzo, costui aveva riconosciuto di aver preso nel luglio 1964 delle misure eccezionali di ordine pubblico su invito del Capo dello Stato. Erano misure di carattere straordinario mai prese in casi analoghi. Il teste ha poi dichiarato che il generale De Lorenzo, nominato comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, mantenne il controllo sul SIFAR tramite il generale Allavena che era stato il suo più diretto e fidato collaboratore e tramite il colonnello Tagliamonti che amministrava le due forze contemporaneamente. Parri ha ricordato che nel luglio 1964 circolavano molte voci sul colpo di Stato e che qualcuno disse:

« Questa è roba da Alta Corte di Giustizia». Ha infine precisato che parlò con Jannuzzi delle diverse soluzioni della crisi che si erano prospettate in quel momento; fra cui il «colpo di forza o di Stato ».

L’onorevole Anderlini ha confermato di aver riferito a Jannuzzi che nel luglio 1964 erano avvenute cose molto gravi: riunioni di militari, rapporti segreti, piano di emergenza. Vennero preparate liste che prevedevano l’arresto di uomini politici e anche di parlamentari. Ha dichiarato di avere spiegato a Jannuzzi che vi era stato un tentativo di «colpo di Stato ». Circa il significato di queste parole aveva espresso il suo avviso che qualsiasi sovvertimento delle istituzioni democratiche dello Stato dovesse ritenersi colpo di Stato. Ha infine affermato che in sua presenza l’onorevole Schiano aveva detto a Jannuzzi che il colonnello Filippi in una riunione aveva chiesto che De Lorenzo partecipasse al Governo.

L’onorevole Schiano ha confermato di aver riferito a Jannuzzi che nel 1965 il generale De Lorenzo lo aveva fatto chiamare e gli aveva chiesto il perché della sua avversione alla nomina di esso De Lorenzo a capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Avevano parlato del luglio 1964 e il generale aveva declinato ogni responsabilità dicendo che aveva eseguito ordini del Capo dello Stato. Il generale controllava contemporaneamente – nel luglio 1964 – l’Arma dei Carabinieri e il SIFAR e aveva trasformato l’organizzazione dei Carabinieri imponendole un indirizzo prettamente militare. Schiano ha poi testimoniato che nella sua veste professionale alcuni ufficiali lo avevano interpellato sui rischi che correvano, nell’ipotesi che fosse stato loro ordinato di occupare sedi di partito anche al Governo e di arrestare esponenti politici. Ha infine confermato di aver detto a Jannuzzi che il colonnello Filippi in una riunione aveva auspicato che il generale De Lorenzo assumesse il Ministero della Difesa.

Il generale di Corpo d’Armata Gaspari ha dichiarato di aver parlato con Jannuzzi delle mire autoritarie di De Lorenzo, di averne illustrato la « sete di potere » e l’ambizione. Il teste gli aveva riferito che Di Lorenzo aveva mantenuto di fatto il controllo e il predominio sul SIFAR facendo nominare a capo di tale organismo un colonnello, Viaggiani, poi irregolarmente promosso generale. Inoltre il colonnello Tagliamonti era contemporaneamente capo dell’Ufficio Bilancio dei

Carabinieri e capo della Sezione amministrativa del SIFAR. Ufficiali del SIFAR erano stati assegnati ai posti chiave, come il comando del Gruppo interno di Roma assegnato al colonnello Filippi e il comando del Gruppo esterno affidato al colonnello Passeri.

Il colonnello De Crescenzo ha dichiarato di avere confermato a Jannuzzi l’esistenza di riunioni intorno al 14 luglio 1964 al Comando generale dell’Arma e la distribuzione di liste di persone da arrestare.

Il teste ha precisato di avere detto a Jannuzzi che si trattava di intrighi personali del generale De Lorenzo e di un gruppo di ufficiali da lui selezionati.

Il colonnello Taddei ha dichiarato di avere assistito al colloquio De Crescenzo-Jannuzzi svoltosi nei termini riferiti da De Crescenzo. Ha poi riferito che nel giugno-luglio 1964 la città di Roma era stata divisa in tre zone per la difesa dell’ordine pubblico con affidamento delle zone ai colonnelli comandanti la legione Roma, la legione Lazio e la legione Allievi.

In sostanza dalle fonti di informazione noi abbiamo accertato che soltanto una circostanza era «pezzo di colore » del giornale ed era cioè la ricostruzione di ciò che era stato detto dal generale De Lorenzo e dei termini usati nella riunione al Comando generale dell’Arma.

Ciò che inoltre è risultato privo di «fonti » è l’azione che avrebbe svolto il presidente Segni che negli articoli era stato indicato come ispiratore del generale De Lorenzo. In realtà, quando si è cercato di indicare quali fossero i contenuti dei colloqui tra il presiente Segni e il generale De Lorenzo ci è stato opposto il segreto politico, ma va ricordato che lo stesso Jannuzzi ha ammesso che dopo la stesura degli articoli gli era risultata l’estraneità ai fatti del presidente Segni. Comunque l’argomento non può essere approfondito perché estraneo al processo.

Le risultanze testimoniati

Nel corso del dibattimento sono stati interrogati ventisei testimoni: venti alti ufficiali e sei parlamentari; abbiamo acquisito il rapporto Manes e la relazione Beolchini: ampio materiale per poter risolvere il giudizio nei limiti dei fatti contestati. Sono stati acquisiti anche altri piccoli documenti, uno di questi è determinante per risolvere la causa: si tratta del foglio di viaggio dei colonnelli Mingarelli e Dalla Chiesa, di cui si dirà poi.

Circa l’attendibilità dei testi, su alcuni dei quali la parte civile ha espresso pesanti apprezzamenti, noi ci rifiutiamo di credere che alti ufficiali dell’Arma dei Carabinieri abbiano deliberatamente mentito.

In ogni caso il Pubblico Ministero non ravvisa contrasti essenziali tra le testimonianze rese: si può anche pensare giustamente che i testi qualcosa non ricordavano dopo alcuni anni dai fatti; ci sono cioè delle omissioni ma un contrasto vero e proprio non c’è.

Merita qualche rilievo la deposizione del più criticato dei testimoni, parlo del generale Zinza, il quale fece delle dichiarazioni molto ma molto precise: egli disse che al termine della riunione al Comando divisionale di Milano si recò da lui il colonnello Tangini, capo dell’Ufficio operativo della legione di Milano, al quale consegnò liste di persone da arrestare e impartì disposizioni in proposito. Il colonnello Tangini incaricò il colonnello Sarti di reperire, per il concentramento degli arrestati, locali all’aereoporto di Linate. Su questa deposizione si è scatenata l’offensiva della parte civile. Ma non crediamo a Zinza? E allora perché non abbiamo interrogato Tangini e Sarti? Il Pubblico Ministero ha sempre ritenuto che l’istruttoria fosse sufficiente per decidere la causa, ma, qualora il Tribunale non la ritenesse tale, non possiamo interrogare soltanto coloro che dettero o trasmisero gli ordini ma anche coloro che li eseguirono, perché solo così avremo il quadro completo dei fatti che accaddero.

La «crisi» del 1964 e le riunioni al Comando generale dei Carabinieri

E ricostruiamo ciò che avvenne nel giugno-luglio 1964. È il 26 giugno 1964: il governo Moro è in crisi. Cosa fa il generale De Lorenzo? Nei fogli di viaggio dei colonnelli Mingarelli e Dalla Chiesa leggiamo: «RADIO n. 40/4r odierno. Al Comando generale dell’Arma per urgenti comunicazioni di servizio ». Quindi la mattina del 26 giugno 1964, mentre il governo Moro è stato battuto alla Camera e sta per dimettersi, parte dal Comando generale dell’Arma un radiogramma (il mezzo di comunicazione piu urgente a disposizione) e immediatamente i colonnelli Mingarelli e Dalla Chiesa partono da Milano e da Napoli e giungono la sera a Roma.

Il giorno dopo – il 27 giugno 1964 – vi è un rapporto essenziale ai fini del giudizio, un rapporto che inutilmente si è cercato di svuotare d’importanza, che si sviluppa in tre momenti e abbraccia una serie di azioni: si svolge in parte davanti al colonnello Picchiotti, in parte presso l’ufficio del colonnello Tuccari e infine dinanzi al generale De Lorenzo. E che forse noi pensiamo che ogni volta che i capi di Stato Maggiore delle tre divisioni venivano a Roma erano ricevuti dal comandante generale dell’Arma dei Carabinieri? Comunque il 27 giugno 1964 nel corso del rapporto tenuto al Comando generale, il generale De Lorenzo direttamente e a mezzo del suo Stato Maggiore ordina uno stato di allarme per i Comandi dipendenti affermando che in « alto loco » si nutrono gravi preoccupazioni e che l’Arma deve essere pronta a tutte le evenienze. E sono presenti al Comando anche il colonnello Allavena e il colonnello Bianchi del SIFAR, presenti non sappiamo se nella stanza del colonnello Picchiotti, ma certamente al Comando dell’Arma.

In questa grossa riunione oltre alle disposizioni sullo «stato di allarme» ci fu la consegna (o l’annuncio della consegna) di liste di persone. Qui è uno dei punti più delicati della causa.

Per ora cominciamo col dire che i generali Picchiotti, Cento, Zinza, Azzari, i colonnelli Dalla Chiesa e Bittoni, con molta lealtà hanno affermato che si trattava di liste di persone da arrestare o fermare. Perché, quando, come e dove è un altro problema. L’utilizzazione almeno eventuale di quelle liste è l’arresto e il concentramento delle persone in esse indicate.

E in occasione di questa riunione si parlò anche di piani di emergenza speciale, che prevedevano il concentramento di persone pericolose; ma di questi piani, notoriamente custoditi sigillati, diremo appresso.

Intanto le riunioni continuano: il 28 giugno 1964 alle ore 10 vengono tenuti contemporaneamente presso i tre Comandi divisionali urgenti rapporti ai comandanti di legione dipendenti con distribuzione delle liste di persone da arrestare, disposizioni circa a predisposizione di luoghi di concentramento, ordini di rivedere i piani per la difesa delle caserme.

Inoltre, alla fine di giugno – inizio di luglio, si svolge una riunione, della quale non ho sentito parola dai difensori di parte civile, presso il Comando generale alla quale furono chiamati i comandanti la legione Roma, la legione Lazio e la legione Allievi di stanza a Roma nel corso della quale fu effettuata una divisione in tre zone della città di Roma e le zone furono affidate al controllo di quei comandanti.

Successivamente, il 4 luglio vi fu ancora una riunione a Napoli e il 6 o 7 luglio una riunione a Roma, presso i Comandi divisionali nel corso delle quali furono distribuite ad alcuni comandanti di legione altre liste suppletive del SIFAR, cosi come hanno dichiarato i colonnelli Dalla Chiesa e Bittoni.

In tutte le riunioni fu prescritta la massima segretezza; le riunioni al Comando divisionale di Roma furono tenute in abiti civili; almeno in un caso fu data disposizione di non informare neppure i superiori gerarchici dei convenuti.

Di quanto avvenne nelle riunioni e di tutte le disposizioni che furono date, non ci risulta che rimasero tracce scritte. Noi abbiamo di «scritto» soltanto il foglio di viaggio dei colonnelli Mingarelli e Dalla Chiesa. Non si può non rilevare che un fatto del genere non è mai avvenuto né negli uffici militari, né in altri uffici pubblici, dove anzi siamo ossessionati dalla necessità dello «scritto», da ciò che è il numero, il protocollo, la tenuta del carteggio.

E di queste riunioni e di quanto in esse avvenuto chi fu informato? Fu messa in movimento tutta l’Arma dei Carabinieri e chi fu avvertito? Nessuno. Non furono informati: .

  • né il ministro degli Interni Taviani o i prefetti ai quali spetta per legge la tutela dell’ordine pubblico;
  • né il ministro della Difesa Andreotti, superiore gerarchico del generale De Lorenzo, e con il quale costui ebbe un colloquio verso la metà di luglio proprio in merito alla situazione generale del Paese;
  • né il generale Rossi, capo di Stato Maggiore della Difesa, con il quale il generale De Lorenzo aveva contatti giornalieri;
  • né il generale Manes, vicecomandante generale dell’Arma dei Carabinieri, destinato pertanto a sostituire il comandante in caso di necessità.

È stato detto che questo generale non doveva essere informato. Noi pensiamo soltanto che il vicecomandante, in caso di impedimento del comandante, deve poter intervenire: altrimenti è inutile che esista. Né va dimenticato che il vicecomandante generale dell’Arma dei Carabinieri è il carabiniere più alto in grado dell’Arma, in quanto il generale comandante non proviene dai Carabinieri (nel caso di specie il generale De Lorenzo era un generale d’Artiglieria).

Le « liste » di persone da arrestare

Alcune considerazioni logiche sulle liste varranno meglio a interpretare i fatti riferiti. Le liste come erano state fatte? Di dove provenivano? Abbiamo accertato che provenivano dal SIFAR e certamente i nominativi in esse contenuti riguardavano persone schedate molto tempo prima (negli elenchi vi erano morti ed espatriati). Dunque non erano liste per le quali si prevedeva un aggiornamento. O vogliamo pensare che il SIFAR, che era tanto attivo, non si occupasse mai di sapere se una spia o un sospetto di spionaggio era vivo o era morto? o aveva cambiato casa? o era espatriato?

Ha detto il generale De Lorenzo che stava aggiornando lo schedario «M». No, è falso. Lo schedario «M», che è una cosa molto seria, non si può aggiornare ogni dieci anni, altrimenti il SIFAR è inutile che esista.

Il SIFAR! Quale attività in quell’estate 1964 svolgeva? Spiava, schedava, faceva «profili». E quali erano i criteri adottati per spiare, schedare, fare « profili» e creare fascicoli? In questa causa del SIFAR ci interessa soprattutto ricordare che è stato accertato che si schedavano persone che nulla avevano a che fare con la sicurezza militare e i segreti dello Stato. Noi non sappiamo chi fossero le persone incluse nelle liste, possono anche essere individui di serie C, come è stato detto nel corso del processo, cioè persone non di primaria importanza. Ma è evidente che la valutazione sulla pericolosità di esse era collegata all’ordine pubblico interno e non ai compiti istituzionali del SIFAR, cioè alla sicurezza militate.

Prima conclusione, dunque: non erano elenchi di spie.

D’altra parte va appena ricordato che l’aggiornamento delle persone sospette di spionaggio è fatto dai Centri di controspionaggio periferici e non dai comandanti di legione dei Carabinieri. Molti testimoni hanno detto: sono quarant’anni che faccio il carabiniere e mai ho visto elenchi del genere. E allora, se lo scopo della distribuzione delle liste non era l’aggiornamento, o meglio poteva anche essere l’aggiornamento ma come mezzo a un fine diverso, qual era il fìne per il quale le liste erano state distribuite? Gli elenchi non avevano il fine dell’aggiornamento e infatt non sono tornati al SIFAR. Disse il generale Azzari: «Gli elenchi li conservammo come memoria senza prenderli in carico». Dall’esame complessivo delle testimonianze è risultato evidente che le liste rimasero presso i Carabinieri e non tornarono mai al SIFAR.

Lo «stato d’assedio»

E allora cosa stava avvenendo? Stava avvenendo l’attuazione di una prima fase di quelle che sono le misure previste per lo “stato di assedio”. Quali misure possono essere adottate in questo caso eccezionale lo ha detto il ministro Taviani, il quale ha appunto ricordato che esiste una circolare che prevede misure che possono portare al fermo di elementi pericolosi per l’ordine pubblico, ma che sono attuabili soltanto in caso di dichiarazione di pericolo pubblico (da farsi con decreto legge). E allora la Direzione di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno era stata informata ? Non solo vi fu una iniziativa arbitraria, ma della iniziativa non si reputò doveroso informare la Pubblica Sicurezza. E allora dobbiamo concludere che proprio perché arbitraria non si volle informare la Pubblica Sicurezza.

In proposito va ricordato il Regolamento organico dell’Arma dei Carabinieri che all’art. 26 dice: “ II comandante generale dei Carabinieri, per quanto riflette il servizio di ordine pubblico e di sicurezza pubblica dipende dal Ministero dell’Interno”. All’art.59: “ I comandanti di gruppo informano i prefetti di tutto ciò che può interessare l’ordine e la sicurezza pubblica nella rispettiva giurisdizione”. All’art. 66: « I comandanti dei Carabinieri conferiscono giornalmente con i prefetti quando non siano impediti da motivi di servizio ».

E’ previsto dunque un collegamento continuo: tutti i comandanti di gruppo parlano con i prefetti, ma nel caso che esaminiamo nessun prefetto venne informato. La cosa ha la sua importanza perché non si può predisporre, per fini che poi vedremo, l’arresto di mille persone e non informare nessuno o meglio non informare nessuno al di fuori dell’Arma dei Carabinieri, anzi di una parte di essa.

Questa fu la prima fase delle misure predisposte dal generale De Lorenzo e adesso vediamo in che cosa consisteva la seconda fase, perché vi era anche una seconda fase. Essa era una previsione, ma una previsione concreta: tutti hanno riferito che al momento opportuno, su ordine (telefonico o meno) proveniente dal Comando generale dell’ Arma , si doveva passare al fermo o all’arresto delle persone indicate.

Si è detto da qualcuno che gli inclusi nelle liste sarebbero stati arrestati soltanto se avessero commesso dei reati. E perché gli altri che commettevano reati, se non erano compresi nelle liste forse non dovevano essere arrestati? La previsione in realtà non riguardava la commissione di reati ma una azione contro alcuni gruppi di persone a torto o a ragione incluse negli elenchi dei «controindicati» del SIFAR.

Ora, come abbiamo già accennato, è solo nel caso di dichiarazione di stato di assedio che si può provvedere al fermo di persone sospette o pericolose per l’ordine pubblico. Questo è possibile perché i poteri coercitivi passano al potere esecutivo il quale assume una libertà di iniziativa che in casi normali non avrebbe mai. Ma perché ciò avvenga è necessario un decreto legge con il quale a norma dell’ar t. 77 della Costituzione, il Governo trasferisce i poteri eccezionali all’esecutivo.

E solo in ultima fase, ancora più grave (stato di guerra interno), si può arrivare al trasferimento dei poteri all’autorità militare. Per arrivare all’autorità militare occorre superare anche il potere esecutivo.

Io dico solo questo: nel giugno-luglio 1964 nessuno disse che l’esecuzione del piano era subordinata alla dichiarazione di stato di assedio da parte del potere esecutivo. Si disse solo che doveva arrivare un ordine dal Comando generale dei Carabinieri.

Questi sono i fatti, questo è quanto sta scritto negli atti del processo. Non sono cose che abbiamo creato noi.

Quando è iniziato questo processo anche il Pubblico Ministero pensava che quella del « colpo di Stato » fosse tutta una favola. Al termine del processo invece alcuni comportamenti illeciti ed equivoci sono stati accertati.

Il rapporto Manes e la relazione Beolcbini

Elemento probatorio di grande rilievo è il rapporto Manes. Noi riteniamo che possa essere accettato integralmente e dirò subito perché. Certo, non pensiamo che tra il generale De Lorenzo e il generale Manes possa esserci stata simpatia, viceversa ci saranno stati indubbiamente attriti.

Comunque io osserverò soltanto questo: si dice che Manes ha scritto il falso, solo perché le sette dichiarazioni le ha stese materialmente lui. Sennonché non riusciamo a capire come si possa dire che il contenuto di questa relazione e degli allegati sia falso quando nessuno ha affermato che una sola parola è falsa. Tutti gli interrogati hanno riferito che le dichiarazioni riportavano esattamente quanto detto al generale Manes; non ce ne è stato uno che ha messo in dubbio l’autenticità.

E l’«inchiesta Beolchini »? Anche Beolchini – si è detto – è una persona non degna di fede, né lui né Turrini, ex comandante generale della Guardia di Finanza, né Lugo, presidente di Sezione del Consiglio di Stato. Eppure cosa dice il generale Musco nella sua intervista a «Vita » il 24 maggio 1967? Tra virgolette, speriamo che sia la verità: «Non esiste persona più obiettiva del generale Beolchini. Se motivi di contrasto vi fossero stati essi avrebbero agito a favore del generale De Lorenzo e non contro di lui, data l’assoluta dirittura morale di cui il generale Beolchini ha dato sempre prova».

Non dico nulla sulla validità di questa inchiesta: basti pensare che Parlamento e Governo l’hanno ritenuta tale e che prima di questa causa nessuno l’aveva criticata. Cosa ha fatto la Commissione Beolchini? Ha cercato, con difficoltà, di fissare i compiti essenziali del SIFAR ed ha concluso che in sostanza il compito dell’organismo era la tutela del segreto e della sicurezza militare dello Stato. Una vasta gamma di discrezionalità nell’attuare questo fine. Ha anche detto che è un organo di Polizia militare, ben distinto però dalla Polizia di Pubblica Sicurezza che opera non alle dipendenze di un organo militare, ma di un organo civile, cioè il Ministero degli Interni. La Commissione Beolchini, dopo aver richiamato questi concetti generali dice che i fini di controspionaggio al SIFAR non venivano perseguiti in modo soddisfacente mentre si era invece sviluppata in quell’organismo una forma di spionaggio politico.

Abbiamo forse due opinioni diverse, l’avvocato De Cataldo ed io, sul concetto di libertà, nel senso che noi non pensiamo che si possa parlare di libertà quando si concede alla persona di esprimere il proprio pensiero, di professare le proprie idee e poi nascostamente si scheda la persona stessa e si annotano le idee espresse. Che in ogni caso il SIFAR avesse deviato dai suoi compiti, lo dimostra il fatto che il ministero della Difesa ha comunicato di aver distrutto

34.000 fascicoli che non avevano nulla a che fare con i compiti dell’organismo stesso.

Musco, prima che De Lorenzo andasse al SIFAR, aveva solo 10.000 fascicoli e mai né lui né i suoi predecessori avevano svolto indagini sulla vita privata di uomini politici.

Comunque a noi interessa sapere che nel 1964 il SIFAR, per una sua deviazione, schedava oltre le persone pericolose per la sicurezza dello Stato anche quelle che venivano ritenute, a giudizio dei suoi capi, politicamente controindicate.

Un altro punto della relazione della Commissione Beolchini che ci interessa è quello relativo al momento in cui il generale De Lorenzo lascia il SIFAR e passa al Comando dell’Arma dei Carabinieri. Che cosa dice a questo proposito Beolchini? Dice che questo SIFAR era diventato un gruppo di potere dove i successori venivano preindicati, diventavano comandanti quando non erano ancora generali e, insomma, c’era una specie di successione, una specie di casta… Aggiunge che proprio per questo collegamento, il generale De Lorenzo disponeva del SIFAR anche quando era passato all’Arma dei Carabinieri e addirittura inoltrava direttamente delle richieste proprie ai Centri periferici del controspionaggio.

E Beolchini ha interrogato 49 ufficiali, 18 sottufficiali e visionato molti documenti. I fatti quindi esistono!

Dal quadro della relazione Beolchini, risulta dunque: indirizzo anomalo impresso al SIFAR dal generale De Lorenzo; cristallizzazione della situazione quando De Lorenzo passò all’Arma dei Carabinieri; controllo contemporaneo dei due organismi da parte del generale. Credo che possiamo arrivare ad una conclusione un po’ più avanzata sulla base di ciò che è emerso nel processo: la strumentalizzazione di questi due organismi per fini personali da parte del generale De Lorenzo.

Vi è così da un lato una posizione di potere indiscutibile che aumenta con i controlli contemporanei; dall’altra una persona di capacità eccezionali, qual è appunto il generale De Lorenzo. Capacità eccezionali ma anche notevoli ambizioni. Questo il quadro del potere di una persona nel momento in cui avvengono determinati fatti. Questo è quanto noi sappiamo.

E ciò che è stato scritto da « L’Espresso » va evidentemente esaminato al lume di questa situazione. Noi diciamo, anticipando quelle che saranno le nostre conclusioni, che l’interpretazione, l’ipotesi giornalistica, formulata da Scalfari e Jannuzzi, non è certo un fatto materiale provato nel senso che sia stata accertata l’esistenza di un tentativo di un colpo di Stato, ma rientra in una ragionevole interpretazione di una particolare situazione di fatto e di un certo comportamento. Né per spiegare questa situazione noi abbiamo il sussidio di una interpretazione diversa del generale De Lorenzo, il quale non ha voluto dare nessuna spiegazione del comportamento da lui tenuto. Possiamo ben comprendere perché si assuma una determinata posizione, ma indubbiamente l’alternativa di esaminare un’altra tesi, quella della parte civile, noi non l’abbiamo. Sul punto la parte civile è stata molto evasiva: si è accennato ad una facoltà, che potrebbe avere sia il SIFAR sia l’Arma dei Carabinieri, di operare in un certo modo, ma non si è voluto approfondire il discorso.

Diritto di cronaca e di critica giornalistica

A questo punto vanno richiamati i concetti giuridici sulla libertà di stampa e sui diritti ad essa conseguenti.

È noto l’art. 21 della Costituzione che al primo comma recita: « Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione ». Con questa norma la Costituzione italiana ha inteso nello Stato di diritto – in contrasto coi sistemi propri degli Stati di polizia – tutelare la fondamentale libertà dell’uomo, che è la libertà di manifestazione del proprio pensiero.

A tale libertà corrispondono due diritti essenziali: il diritto di opinione e il diritto di informazione.

Nell’ambito della stampa il diritto di opinione si estrinseca e si qualifica come diritto di censura o di critica giornalistica; il diritto di informazione si identifica con il diritto di cronaca. In sostanza il giornalista ha il diritto di narrare i fatti di cui è a conoscenza e di valutarli criticamente secondo principi di logica. Ovviamente questi diritti hanno il limite del rispetto della verità e dell’interesse sociale alla conoscenza dei fatti, senza entrare in esposizione di fatti privati.

Entro quest’ambito l’esercizio del diritto è tutelato anche se i fatti riferiti possano offendere la reputazione del cittadino.

Ed è tutelata anche la critica giornalistica cioè la valutazione intellettuale, l’interpretazione del giornalista che è lecita salvo quando si scenda all’epiteto ingiurioso fìne a se stesso.

In questa causa è molto importante tenere distinto ciò che è narrazione e ciò che è valutazione perché è ovvio che la valutazione è una verità soggettiva che non pretende affatto di essere una verità assoluta.

In questo caso che stiamo esaminando dire che il generale De Lorenzo ha tentato un pronunciamento autoritario è indubbiamente una cosa che investe contemporaneamente il diritto di cronaca e il diritto di critica perché vi è una valutazione anche delle intenzioni. Quando si parla di preparare, di tentare è evidente che siamo nel campo intenzionale; i fatti sono le azioni materiali, il comportamento tenuto.

Noi dobbiamo riconoscere al giornalista il diritto ditrarre delle conclusioni da un certo comportamento. A questo punto citeremo una sola massima che conforta il nostro pensiero: « Il diritto di cronaca va inteso non già limitato al mero riferimento dei fatti ed avvenimenti nei termini minimi essenziali per la loro conoscenza, ma comprensivo di quel commento illustrativo e critico che valga alla completezza della conoscenza da parte dei lettori anche dell’adeguato opportuno apprezzamento del giornalista esponente » (Cass. II, 4 dicembre 1962; Giust. Pen., 1963, II, 844). L’importante è che i veri fatti, quelli materiali, siano esatti o che almeno provengano da una fonte di informazione che tale li fece apparire ai giornalisti.

La risposta ai quesiti di questa causa quale deve essere? I fatti riferiti come cronaca, i fatti materiali sono stati provati. Non è stato provato che il 14 luglio ci fu una riunione, ma quello che è diffamatorio non è il «14 luglio » o il « 27 giugno » e ricordiamoci che il generale De Lorenzo non ha neppure querelato l’articolo Complotto al Quirinale, quindi il contenuto di questo articolo non può essere addebitato ai giornalisti.

La decisione della causa

Le nostre tesi già le prospettammo nell’udienza del 23 dicembre 1967, ma il Tribunale ritenne opportuno approfondire l’indagine sui fatti descritti nei noti articoli.

Non crediamo di andare errati se rileviamo che l’ulteriore istruttoria ha permesso di verificare puntualmente quanto già accertato nelle prime udienze.

Anzi l’acquisizione della relazione Beolchini ha permesso di avere nuova luce su un punto essenziale al giudizio e cioè la quantità di potere concentrata nelle mani del generale De Lorenzo.

Pertanto il Pubblico Ministero, che in questa aula deve chiedere l’affermazione della giustizia penale sia in senso favorevole che sfavorevole agli imputati, deve concludere per l’assoluzione di Scalfari e Jannuzzi da tutte le imputazioni. Più in dettaglio per quanto attiene

all’imputazione di diffamazione aggravata nei confronti del generale De Lorenzo l’imputato Scalfari va assolto a norma degli artt. 21 della Costituzione e 51 c.p. avendo egli agito in presenza di una causa di giustificazione (esercizio del diritto di cronaca e di critica).

Per quanto attiene alle imputazioni di diffamazione aggravata nei confronti del colonnello Filippi va rilevato che gli imputati non hanno provato che la nota frase fu detta da Filippi e che il medesimo era presente nelle riunioni al Comando generale dell’Arma.

Ora è evidente che quello che può essere diffamatorio non è al fatto che il generale De Lorenzo assumesse il Ministero della Difesa; ma è la circostanza che in questo modo si inserisce il Filippi in un certo giro. Solo così noi possiamo parlare di una forma diffamatoria. Ed allora da molte parti del processo è risultato come il colonnello Filippi era effettivamente l’uomo di fiducia del generale De Lorenzo. Ma, si dice, non basta; sono solo voci. No, c’è anche una testimonianza, Schiano: “Sono stato io a dire a Jannuzzi che il colonnello Filippi aveva sostenuto la nomina del generale De Lorenzo a ministro della Difesa ”.

Signor presidente, signori del Tribunale, noi non crediamo che Scalfari e Jannuzzi e in particolare Jannuzzi quando scrisse che il colonnello Filippi fece questo intervento, volessero colpire intenzionalmente Filippi. Noi crediamo che questo particolare fu inserito solo perché si credette alla fonte di informazione.

D’altra parte la fonte di informazione Schiano è risultata per tutto il resto pienamente valida e lo stesso fatto che il generale De Lorenzo volle ospitarlo con molta deferenza al Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, ci mostra come realmente Schiano doveva essere addentro alle segrete cose del SIFAR e del generale comandante.

Il Pubblico Ministero ritiene perciò che nel caso di specie ci fu un erroneo convincimento degli imputati in ordine a quanto da essi scritto.

Scalfari e Jannuzzi vanno quindi assolti anche dal reato di diffamazione aggravata nei confronti del Filippi a norma degli artt. 51 e 59 c.p. perché il fatto non costituisce reato per avere agito nell’erroneo convincimento della presenza di una causa di giustificazione.

Tre avvocati, il primo del Foro di Milano, il secondo di Roma e il terzo di Napoli, difendevano « L’Espresso » e i due giornalisti imputati. L’accusa è stata ritirata, la fatica che li attende è ardua e difficile: essi lo sanno benee e si rendon conto che, a differenza di quello che pensa la gente, la battaglia è tutt’altro che vinta. In cuor loro sono pessimisti. La richiesta di assoluzione del Pubblico Ministero ha reso forse più difficile il loro compito.

Il primo a prendere la parola è l’avvocato Adriano Reale, del Foro di Napoli. Egli è il difensore della società editrice de « L’Espresso » e parla a nome dì Carlo Caracciolo, colui al quale Giovanni De Lorenzo e Mario Filippi hanno chiesto, in via provvisoria, un risarcimento danni di trenta milioni.

Seguirà l’arringa del professar Gian Domenico Pisapia. L’avvocato Ferruccio Liuzzi chiuderà invece la discussione. Vi saranno, poi, le repliche e toccherà al professar Pisapia rivolgere ai giudici il commiato finale.”

(Il testo, ricavato da registrazione magnetica, è stato riveduto e corretto dallo stesso Autore.)

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