180 parole, senza neanche un punto o un punto e virgola, attraverso un dedalo di subordinate, per esprimere un pensiero? Cos’altro è, se non narcisismo della scrittura?
Uno dei principali problemi del linguaggio e della comunicazione forensi (e non solo) è senz’altro l’inutile ma tanto ostentata complessità: intrìco, dunque sono. È ciò che pensa il giurista comune, in preda ad una sorta di vero e proprio autocompiacimento quando riesce a complicare ciò che potrebbe essere reso in modo naturalmente semplice (ed efficace).
Francesco Galgano confessava alla linguista Bice Mortara Garavelli di non riuscire a capire, molte volte, parti di certe sentenze e il loro “periodare a festoni”. Carofiglio ha poi giustamente parlato di narcisismo della scrittura, pigrizia ed esercizio del potere, all’origine di tutto.
Negli ultimi anni sono ancora tanti gli esempi di brani (da manuali, atti e sentenze) come quello citato all’inizio del post. Non possiamo che invitare a riflettere soprattutto sul patto – tacito e scellerato – che ancora lega docenza-magistratura-avvocatura e che porta ad accettare forme di manifestazione del pensiero di questo tipo.
Col dubbio che il pensiero stesso, all’origine, possa essere analogamente contorto.