Queste le parole con cui, nel settembre 1986, Enzo Tortora conclude le proprie dichiarazioni al processo d’appello che lo assolverà. Circa venti minuti di straordinaria oratoria, intrisa di logos (logica), pathos (emotività) ed ethos (forza morale).
Venerdì 17 giugno 1983 Enzo Tortora, all’epoca forse il più noto presentatore televisivo italiano, viene svegliato alle 4 del mattino dai Carabinieri di Roma e arrestato per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Spostato in manette all’ora di punta con le televisioni nazionali che ne inquadrano bene i ferri, e con i giornali che consumeranno pagine e pagine sull’argomento.
Il 17 settembre 1985 Tortora viene condannato a dieci anni di carcere, dopo un processo che già all’epoca appare assurdamente indiziario.
A conclusione del processo di appello Enzo Tortora rende delle dichiarazioni delle quali viene ricordata, tutt’al più, la sola parte conclusiva (“Io grido: “Sono innocente”. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”), ma che vanno ascoltate e soprattutto vanno ascoltate per intero. Rappresentano uno straordinario esempio di oratoria, dove il logos viene mescolato al pathos e all’ethos, interagendo sinergicamente in una costruzione vivida ed efficace, oltre che naturale.
Il 15 settembre 1986 Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli. Non viene assolto per la retorica delle sue dichiarazioni (anzi, il Presidente della Corte rivelerà che il suo atteggiamento di sfida non deponeva bene), ma perché innocente.
Tuttavia le sue parole restano straordinariamente valide e sfidavano giustamente l’ingiustizia.
Tortora torna in televisione il 20 febbraio del 1987, ricominciando il suo Portobello. Il ritorno in video è altrettanto toccante. E lì Tortora, con evidente commozione, pronuncia parole altrettanto intrise di un sana ed efficacia retorica:
“Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo “grazie” a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L’ho detto, e un’altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo so anche, per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi. Sarò qui, resterò qui, anche per loro. Ed ora cominciamo, come facevamo esattamente una volta”.
Morirà poco dopo, il 18 maggio 1988, distrutto da quello che retoricamente (eufemismo) viene detto un “male incurabile”. Che in questo caso non si sa se sostituisca il termine “tumore” o “ingiustizia”.